Un testo potente che, senza dire quasi nulla, ci dice tutto. Un frammento di vita in cui non c’è molto da “spiegare” ma c’è moltissimo da “sentire”, attraverso i dettagli che raccontano l’incontro tra due donne: una donna che affronta la patologia e una donna che le è accanto per prendersene cura.
1996. Sono arrivata davanti alla porta del reparto di Reumatologia, la Reuma, come diciamo tra noi, ma io non sono ancora diventata 'noi'. Dietro quella porta, il corridoio mi sembra troppo lungo per le mie possibilità; mi siedo su una panchina in finta pelle marrone, situata appena all'inizio di quel corridoio che mi fa paura, decisa a non muovermi di lì: ho con me un borsone che contiene biancheria per un reggimento. Nessuno mi ha convocata per il ricovero, ma non mi interessa, perché ho capito che sono nel posto giusto. La mia sicurezza aumenta quando mi trovo, dopo due minuti dal mio arrivo, circondata da medici che capiscono subito la mia sofferenza ancora prima che io incominci a parlare, una dottoressa mi guarda in viso e dice agli altri 'Sta molto male, non avete visto i suoi occhi?'.
Qualcuno azzarda una diagnosi, è un medico giovane, forse vuole dimostrare la sua bravura e perspicacia, ma la dottoressa non fa commenti e guarda il mio volto, dopo osserva le gambe e i piedi: credo subito in lei e nel giovane dottore, li vedo preoccupati e professionali, mi piacciono molto entrambi. Che parola ha detto il dottore? Non me la ricordo, ma da come l'ha pronunciata sembra qualcosa di grave. Nel frattempo vengo invitata a presentarmi il giorno successivo per essere ricoverata, al momento non ci sono letti disponibili; dico subito 'Io non mi muovo da qui, ho con me il pigiama, sono stanca di essere mandata via, tenetemi qua.' E la dottoressa rimane colpita dalle mie parole, lo sento.
Mi fanno accomodare in una piccola stanza che si affaccia su quel corridoio grigio e orribile, rimango qualche minuto sola con mio marito che mi incoraggia pallido; mi sdraio su un lettino duro, marrone, non mi piace niente di questo reparto. Dopo qualche minuto torna la dottoressa, grazie a Dio c'è un raggio di sole in tutto quello squallore, mi mette subito una flebo nel braccio, aiuto, gli aghi mi fanno paura! Mi promette che cercherà un letto, non mi manderà a casa, posso stare tranquilla, incominciamo la terapia subito, non abbiamo tempo da perdere. Saluto mio marito che si allontana, ma tornerà in serata, non mi devo preoccupare. La medicina scende lentamente dalla flebo e mi entra nel braccio: mi hanno informato che si tratta di un vasodilatatore, fa bene alle mie arterie.
La dottoressa mi sta vicina per un po', sorride, ma la sua fronte è lievemente corrucciata; mi dice che troverà una soluzione, devo aspettare che lei parli con i colleghi per decidere il da farsi, non resterò su quel lettino di fortuna ancora per molto. Mi chiede se sono comoda, non lo sono affatto, ma le rispondo che sì, sto comoda, grazie. La flebo che sto facendo non finisce mai, ma occorre pazienza, la medicina contenuta deve scendere lentamente; quando tutto il liquido è terminato un'infermiera mi chiede se preferisco cambiare posizione, posso sedermi sulla panchina marrone che mi ha dato il benvenuto qualche ora fa. Mi siedo lì, è passata da poco l'ora di pranzo, nel reparto grigio tutto è tranquillo: le persone ricoverate sono nei loro letti a riposare, gli infermieri sono in una stanza poco lontana da me, sento che parlano dietro la porta accostata. C'è un'atmosfera di calma nel corridoio, dove in quel momento non passa nessuno; ci sono solo io. La dottoressa mi ha lasciata da sola? Penso a ciò che è successo durante la mattinata: mi ricordo che i letti sono tutti occupati, non c'è posto per me oggi? Mi volto verso la porta d'ingresso del reparto: è di vetro, illuminata dal sole di giugno che promette allegria, voglia di vivere, speranza. Mi giro dalla parte opposta: un lungo corridoio anonimo, sul quale si affacciano le porte delle camere; sento un lamento, non lo voglio ascoltare, allora mi volto di scatto verso la porta a vetri che emana una luce irreale. E' in quel momento che sento un rumore di rotelle in movimento, proviene dalla parte grigia del corridoio ed è accompagnato da un piacevole chiacchiericcio: giro la testa in quella direzione e, con mia grande sorpresa, appare la dottoressa sorridente, accompagnata da un collega con il quale sta evidentemente discorrendo in modo simpatico: spinge un letto nella mia direzione! Mi sento sollevata, un po' confusa: quel letto è per me? Che cosa succede in questo tetro grigiore?
La dottoressa spinge un letto più grande di lei, le ruote, accidenti, vanno dove vogliono e lei fatica a dirigerle nella giusta direzione. Quando arriva, finalmente, vicino a me, mi comunica con un sorriso che posso indossare il pigiama; come per magia il letto entra in una camera ampia, dove ci sono già altri letti con la testiera appoggiata contro le pareti; il mio letto viene posizionato in mezzo alle due file di letti già in camera e la dottoressa si scusa per la mancanza del comodino. Non ho parole, il grigio non c'è più.
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