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Raccontare il Morbo di Still

La testimonianza di Iani, che condivide la sua storia per dare voce a questa patologia reumatologica rara

Luglio 2019. 

di Iani Pantelis, 35 anni nato ad Atene. Grande passione per il calcio, per il basket e per la scrittura.

 

Luglio 2019. Roma. Stazione Termini. Federica e Sara mi stanno aspettando. La prima ha parcheggiato la macchina in doppia fila sperando di non farsi multare. La seconda invece si sta preparando per la cena che avremo più tardi. Il viaggio è stato rilassante. Il treno, non so per quale motivo, mi rilassa sempre. Mi serviva perché, per l’ennesima volta, prima di partire avevo discusso con mia madre ed è una cosa talmente abituale che nemmeno ricordo il motivo. C’è bel tempo a Roma e fa veramente tanto caldo, ma d’altronde non sarebbe potuto essere diversamente dato che siamo in piena estate. Federica mi vede da lontano e mi chiama sbracciandosi. C’è un vigile a pochi passi da lei che la punta con lo sguardo quindi inizio ad accelerare il passo per evitarle spiacevoli soprese. Una volta in macchina la sensazione di liberazione infatti è grande che quasi non ci salutiamo nemmeno e procediamo verso casa. È una bella casa la sua. Spaziosa e accogliente. Mi prendo il mio tempo per cambiarmi e prepararmi perché la sera, appunto, avremo una cena impegnativa in un localino esclusivo. Sistemo la valigia e tiro fuori una morbida camicia bianca in lino col colletto coreano perfetta per l’occasione. Intorno alle 19:00 partiamo perché, come ben si sa, a Roma sai sempre a che ora parti, ma difficilmente puoi sapere a che ora arriverai a destinazione. Una volta arrivati vedo che Sara è già lì. Non conosce nessuno a parte me quindi servono dieci minuti tra presentazioni e convenevoli del momento per rompere il ghiaccio. Possiamo iniziare a sederci sbirciando il menu. Ricordo ancora di aver preso una tartare al gambero rosso. Non avevo molta fame. Erano circa un paio di ore che mi portavo dietro una sensazione strana. La classica sensazione di quando qualcosa smette di essere fluido. Come quando si accende una spia sul pannello della macchina con la differenza che non sapevo che spia fosse e, spoiler, nessuno l’avrebbe saputo per oltre due mesi. Mentre aspetto inizio a bere acqua. Ne bevo molta. Sento di averne bisogno e questo non perché fa caldo. Dopo un paio di sorsi sento che la gola fa molta fatica a fare il suo abituale lavoro. L’acqua va giù con estrema difficoltà. Non ci voleva, tuttavia va bene così. Nulla di drammatico. Sarà una leggera infiammazione che con una tachipirina passerà. Finalmente dopo una lunga attesa arriva la tanto desiderata tartare. È talmente piccola che mangiarla con una forchetta sarebbe quasi offensivo eppure non riesco a finirla. Sara se ne accorge e mi chiede se andasse tutto bene. La risposta ovviamente è che semplicemente non avevo fame perché nel pomeriggio avevo mangiato tanto sul treno. Bugia. In quel momento l’ultima cosa che vorrei fare e concentrare la serata su di me e sul fatto che non mi sentissi bene. Sarebbe passato come passa un qualsiasi raffreddore. Dopo un interminabile post cena ci dirigiamo verso casa. Avevo preso una stanza per una notte soltanto. Federica era tornata a casa sua e Sara mi stava accompagnando per poi andare anche lei ad alloggiare in un altro albergo. Lì è il primo momento in cui le dico che sentivo qualcosa di strano. L’avevo già capito e l’avevo anche metabolizzato. Avevo qualcosa che non andava. Non ero spaventato e non ero allarmato. Era come se dentro di me mi stessi dicendo di stare sereno e di analizzare con lucidità il momento. Salgo le scale e sento le gambe fare fatica. Tre anni fa giocavo a calcio, di certo le gambe forti non mi mancavano, ma in quel momento, quelle scale, erano quasi insormontabili. Entro in stanza ritrovandomi in un buco che difficilmente augurerei a chi vuole alloggiare in comodità. Una stanza talmente piccola che la porta sbatteva sul lato del letto e nemmeno si apriva interamente. Inizio ad avere tantissimo caldo e infatti vado a dormire in mutande godendomi i pochi secondi di freschezza del lenzuolo. La mattina dopo faccio una doccia ed esco. Avevo la febbre. Sarei stato in giro per Roma tutto il giorno e la sera avrei ripreso il treno per tornare a casa. Sara mi viene a prendere con una faccia che è un misto tra il preoccupato e il tentativo di non sembrare tale. A Roma ci sono almeno 40° e io ho la sensazione di avere una temperatura interna almeno pari a quella esterna. Camminiamo tutta la mattina finché non entriamo in una pasticceria nella speranza di goderci un po' di aria condizionata. Prendo una coppa di fragole. Ne mangio due. Non stavo bene. Iniziano a farmi male le tibie. Ricordo di aver ripetuto a Sara, con una tranquillità invidiabile, che non stavo bene. Ricordo di averle detto: “eh già, stavolta non sto bene davvero”. Questa frase sarebbe dovuta essere una battuta e invece è passata alla storia come un azzeccatissimo presagio.

Le 21:00 arrivano e saliamo sul treno. Davvero non so come abbia fatto ad arrivare alle 21:00, non so come abbia fatto a fare l’intero viaggio e non so come abbia fatto a guidare fino a Varese. Ricordo di aver provato a bere un tè caldo arrendendomi subito e poi basta. Non ricordo nient’altro del viaggio. So di essere arrivato a casa, aver telefonato a mia mamma, essermi sdraiato sul divano ancora vestito e di aver dormito. Il giorno dopo ho avvisato la mia titolare che sarei rimasto a casa. Il medico di base mi disse che sarebbe potuta essere una semplice faringite. Avevo la gola in fiamme al punto da non poter deglutire nemmeno la mia saliva. Dormivo con una ciottola accanto al letto dove poter sputare. Fa abbastanza schifo l’immagine, ma andò così. Avevo dolori muscolari tremendi e ogni sera la febbre mi saliva sopra i 40°. Non riuscivo ad alzarmi dal letto senza aggrapparmi a qualcosa e non nego che diverse volte mi sia passata in mente l’idea di fare la pipì lì perché i cinque metri che mi separavano dal bagno erano una distanza incredibilmente grande. La testa però era viva e sveglia. Ricordo di aver detto a mia madre di portarmi all’ospedale e così fu. Tempo di attendere qualche minuto e poi, finalmente, arrivò il mio turno per fare gli esami del sangue. Passarono ancora pochi minuti finché non uscì una dottoressa che mi consigliò di passare la notte lì. Salii su una barella e mi misi accanto al muro del corridoio. La notte fa freddo in ospedale. Mia madre restò lì con me. Preoccupatissima. La mattina dopo iniziarono i controlli. Mi venne chiesto se avessi mangiato del pesce crudo, se avessi viaggiato recentemente in località asiatiche e quando avessi fatto l’ultimo tatuaggio. Risposi a tutto e poi tornai a dormire. Dormii tutto il giorno. Al mio risveglio avevo davanti agli occhi un piatto di pasta e il cellulare pieno di messaggi e chiamate. Non mangiai e non risposi a nessuno. Non riuscivo a mangiare e non avevo voglia di allarmare nessuno. Restai ricoverato una settimana prima di essere rimandato a casa con una terapia momentanea da seguire. Nessuno sapeva cosa fosse successo. A casa le cose non cambiarono, anzi. Stavo male ogni giorno senza miglioramenti. Chiesi di essere di nuovo ricoverato e questa volta finii nel reparto “malattie tropicali”. Il nome è bello affascinante in effetti. Fa curriculum. Iniziarono a venirmi a trovare tanti amici e molti di loro tradivano le loro emozioni per colpa dei muscoli del loro viso. Altri restavano più impassibili. Senza accorgermi persi 15kg. I giorni passavano e ogni mattina una dottoressa veniva a farmi visita. Non mi diceva mai nulla di nuovo, ma dai suoi occhi vedevo che era sempre più in difficoltà perché portava dentro il peso di non potermi dare buone notizie. Avevo visto più volte i dottori confrontarsi rendendomi conto che non sapevano come procedere. Ci sono stati un paio di giorni in cui avevo rischiato di perdere la pazienza. Di certo non avrei fatto del male a nessuno perché ero più debole di un ramoscello in mezzo a una tempesta, ma di testa sarei andato giù. Mi aiutava tantissimo leggere manga e fare la settimana enigmistica. Credo di aver fatto ogni possibile esame del sangue esistente su un protocollo medico eppure nulla diede una risposta su ciò che stessi vivendo. Poi arrivò un giorno di inizio settembre. Dopo 45 giorni di ricovero mi venne diagnosticato il Morbo di Still. Diagnosticato per esclusione. Rarissimo. Di solito colpisce donne under 30 e io, ovviamente, ero fuori da entrambe le macro aree. Sono un maschio over 30. La vita è divertente. L’impatto comunicativo del primario fu alquanto rude, ma probabilmente per me è stato meglio così. Mia madre crollò, io rimasi sereno metabolizzando in fretta tutto. Malattia degenerativa per le articolazioni, artrite giovanile accentuata, infiammazione costante di tutto ciò che possa essere immaginato e gestione per tentativi perché non esiste qualcosa di definitivo contro le malattie autoimmuni. Può peggiorare da un momento all’altro. Il mio sistema immunitario era andato in tilt. Avrei dovuto smettere di giocare a calcio, avrei dovuto valutare l’ipotesi di andare a vivere in un posto diverso dal nord Italia e avrei dovuto capire se sarei stato in grado di lavorare. In quel momento il gioco era diventato capire cosa avrei dovuto togliere e a cosa avrei dovuto rinunciare definitivamente. La terapia fu basata su dosi di cortisone elevatissime. Uscii dall’ospedale. Non avevo un singolo pantalone che mi andasse. Ogni maglietta era almeno due taglie più grande. Le persone del mio intorno mi trattavano eccessivamente bene rispetto a ciò che io avevo dentro. Ero sereno in un modo che non saprei descrivere. Per qualche strana connessione avevo già accettato di dover convivere con qualcosa che avrei dovuto rendere mio amico perché non avevo alternative. Non era venuto per andarsene, era venuto per restare per sempre con me. Still era un nuovo ospite e avrei dovuto farci amicizia. Nei primi giorni non avevo forza e i dolori erano sempre presenti nonostante il cortisone. Poi le cose migliorarono. Tornai a giocare a calcio e a lavorare, ma era tutto illusorio perché, il cortisone appunto, copriva tutto come un telo messo sopra a un tavolo che non deve prendere polvere. Il debito però prima o poi sarebbe arrivato. Abbassando il cortisone iniziavo a soffrire. Avevo dolori agli addominali e allo stomaco che non si possono raccontare. Arrivavano random e duravano minuti. Interminabili minuti in cui rischiavo di mordermi la lingua per il male. Poi le mani. Le mani dopo le 19:00 iniziavano a farmi male da non poter tirare su la penna dal tavolo. In ufficio non riuscivo a pinzare le fatture. Alcune volte la mano destra, altre la sinistra e qualche volta entrambe. C’erano sere in cui non potevo togliere il freno a mano dalla macchina e in cui non potevo aprire la porta di casa per il dolore. Assurdo a pensarci ora. Ad oggi sono passati quasi tre anni. Sono fortunato. Sono fortunato perché se fosse capitato sotto pandemia non penso ci sarebbe stato spazio per curarmi. Sono fortunato perché prima che accadesse avevo lavorato tanto sulla mia testa anticipando la difficoltà emozionale che una malattia porta. Sono fortunato perché ci sono cose più gravi e terrificanti. Sono fortunato perché ho avuto e ho attorno persone che condividono. Ci sono cose che arrivano. Succederà sempre. Vanno accettate perché comunque vada il sole si alzerà in cielo di giorno e la luna regnerà nella notte. Non sono un eroe perché sto facendo il mio dovere nei confronti della vita, ma non sottovaluto nemmeno ciò che è successo. La testa è stata fondamentale. La voglia di migliorare la previsione su ciò che sarebbe dovuto essere lottando per guadagnare centimetri di salute che non erano più pensati per una malattia del genere. È più di un anno che ho esami del sangue perfetti e non ho più un singolo dolore al copro. Che sia muscolare o articolare. Non soffro il freddo. Non soffro l’umidità. Il primo passo è stato accettare, sorridere e andare avanti. Si convive. Ognuno ha i suoi spazi. Still mi lascia lo spazio di vivere la vita e io gli dedico attenzioni. Mangio meglio, dormo di più, mi alleno senza strafare e parlo di lui senza nasconderlo. Non ci sono altre strade. Tanti vivono momenti nei quali sono chiamati a un ruolo per il quale non erano preparati. Non c’è tempo per capire se si è giusti perché comunque sia non si può scegliere se accettare o no l’incarico. Il proprio meglio dev’essere abbastanza. È una missione piena di porte che si apriranno a causa di una porta che si è chiusa. Ho conosciuto persone che oggi hanno accesso alla mia sfera emotiva che non avrei conosciuto altrimenti. Mi sono reinventato dal punto di vista professionale e probabilmente mai l’avrei fatto altrimenti. Ho migliorato dei rapporti intimi come ad esempio quello con mia madre e anche questo non l’avrei mai fatto probabilmente. Ho la possibilità di scrivere questo pezzo e portare, nel mio piccolissimo, coraggio a chi ad oggi ne ha bisogno. Sono conquiste. Sono porte che si sono aperte. Qualcuna subito e altre dopo. Altre si apriranno più avanti ancora. È dura, ma la resa non è ammessa. È difficile contenere paura e ansia, ma non bisogna paralizzarsi. Serve impegno a non farsi travolgere dalla fragilità. È un gioco interno di discorsi da farsi in continuazione. Ci sono cambi di palcoscenico che vanno portati con sé costruendoci attorno una nuova storia che ne tenga conto. Il modo più comune per rinunciare alla propria ripresa è quello di pensare di non esserne all’altezza. Il vuoto esiste soltanto perché manca la chiarezza di comprenderlo. Spesso non servono nemmeno soluzioni pratiche perché quello che serve è rallentare per fare chiarezza. Ci vuole tempo e in questo tempo le cose miglioreranno. Vivere nella fiducia. Non è tutto nero. Facendosi spazio si può vedere la luce. Tanta luce. La malattia accompagna, ci si sorride. Coraggio.  


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